Dopo alcuni anni durante i quali gli incidenti mortali sul lavoro manifestavano una lenta discesa, i primi mesi di quest’anno segnano una preoccupante inversione di tendenza. A livello di numeri siamo a 154 persone morte nei luoghi di lavoro nei primi tre mesi.
E’ inconcepibile che si possa perdere la vita per il solo fatto di prestare un’attività che consente di partecipare con impegno alla produzione della ricchezza nazionale e poter guadagnare un po’ di soldi che ti consentono di mantenere la propria famiglia.
Se poi allarghiamo il discorso alle persone vittime di infortuni con conseguenze gravi che cambiano improvvisamente le prospettive di vita allora siamo in presenza di una vera e propria strage che non si ferma. E’ stata sufficiente una pur timida ripresa per determinare questa accelerazione degli infortuni che da un po’ di tempo si stanno susseguendo nei diversi settori produttivi e in diverse aree del Paese. Come dire che nessuno si può sentire al riparo di simili tragedie.
Non ho mai creduto alla fatalità e al destino “cinico e baro” che a volte viene invocato accompagnato dall’aggettivo “tragico”. Ho sempre pensato che dietro ad ogni evento vi fossero precise cause e responsabilità. Certo, gli incidenti hanno motivazioni e contesti che possono cambiare tra loro ma c’è una matrice unica ed è rappresentata dal modo in cui è organizzato il lavoro. E soprattutto dal modo in cui è concepito il lavoro. Domandiamoci perché nel nostro Paese paghiamo un così alto prezzo di vite umane sull’altare della produzione. Perché stenta ad affermarsi una cultura della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro? Le norme esistono e sono anche di facile interpretazione ma, purtroppo non vengono rispettate in quanto considerate degli inutili “impicci burocratici” e dei costi non sopportabili per l’impresa.
La tutela e la salvaguardia dell’integrità psico-fisica del lavoratore non può mai essere considerata un costo bensì un diritto di chi lavora, un dovere per l’impresa e per l’autorità pubblica competente garantirla.
Purtroppo la realtà è ben diversa. Il permanere del lavoro nero e di lavori “ad ogni costo” ed in qualsiasi condizione sono il contesto più ricorrente soprattutto nella piccola e media impresa. Così come sono largamente insufficienti le risorse che vengono destinate agli strumenti di controllo sul territorio. Che fine ha fatto la stesura del Piano nazionale di strategia sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro ?
Bene hanno fatto Cgil,Cisl, Uil a richiamare, ancora una volta, l’attenzione di tutti su questo grande tema e voler dedicare la Manifestazione del prossimo 1° Maggio che si svolgerà a Prato ai temi della sicurezza anche in ricordo dei sette lavoratori cinesi che persero la vita nel famigerato “stanzone”.
Ma questo intensificarsi degli infortuni sul lavoro ci dice anche un’altra cosa importante: siamo in presenza di un consistente peggioramento della qualità del lavoro. Non possiamo fermarci a rilevare che cresce il numero totale degli occupati perché questo rappresenta un dato parziale della condizione di lavoro. Come ha giustamente evidenziato l’ultima ricerca della Fondazione Di Vittorio la ripresa non genera occupazione di qualità perché scommette in modo prevalente su un futuro a breve e su una competizione tutta imperniata sulla riduzione dei costi (sicurezza e salario in primis).
Comunque, il volume delle ore lavorate nell’ultimo trimestre del 2017 è risultato inferiore del 5,8 per cento rispetto a quello del 1° trimestre 2008. Basterebbe questo semplice dato a dimostrare quanto sia strutturalmente debole e precaria la nostra ripresa e quanto sia denso di preoccupazioni il futuro di coloro che sono alla ricerca di un lavoro, soprattutto i giovani che faticano molto a programmare la propria vita. Per non parlare di quelle centinaia di migliaia di lavoratori privi di ammortizzatori sociali che sono rimasti , o rimarranno a breve, senza alcuna garanzia di reddito e senza strumenti di accompagnamento ai processi di riqualificazione del lavoro.
Di fronte a questi scenari prende un senso di sconcerto e di profonda amarezza assistere in questi giorni, dopo un mese dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento, al balletto delle dichiarazioni dei “nuovi” leaders usciti vittoriosi. Qualcuno ha trovato qualche indicazione programmatica concreta per contrastare il dilagare degli incidenti sul lavoro? O per dare una risposta a coloro che rimarranno a brevissimo senza reddito? O per avviare una seria politica industriale condivisa con le parti sociali? O per ridurre drasticamente le tipologie contrattuali che sono fronte di un vero e proprio sfruttamento dei lavoratori?
E ….. si potrebbe continuare per molto. Siamo invece in presenza di una sorta di simulazione del dialogo, impercettibile, infarcito da ambiguità, veti incrociati, rivendicazioni di poltrone (oltre a quelle già acquisite che non sono poche).
In pratica un ipertatticismo che fa impallidire i cultori della Prima Repubblica. Alcuni commentatori hanno osservato che siamo di fronte alla “fase teatrale” della crisi politica. I protagonisti evitano di parlare con chiarezza di quello che vogliono fare e ogni tanto lanciano qualche “messaggio”, vero o non vero è secondario, l’importante è rimanere al centro dell’attenzione. Le mosse servono a prendere tempo. Ma i problemi concreti del Paese possono ancora attendere a lungo ? Non servono dichiarazioni per rassicurare le proprie tifoserie ponendo veti e lanciando anatemi.
La campagna elettorale è terminata (almeno si spera). E’ iniziata la fase della dura prova che deve essere caratterizzata da responsabilità e competenza necessarie per governare.