La conversione in legge del Decreto-Legge 28gennaio 2019, n.4, recante Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, proposto dal Governo conferma le criticità di fondo già rilevate all’approvazione del decreto.
In questa nota riprendiamo sinteticamente le principali, a cui seguirà nei prossimi giorni una lettura più dettagliata della legge
Per quanto concerne il Reddito di Cittadinanza la misura conferma il rovesciamento dell’impostazione del Reddito di Inclusione -che viene superato- e si caratterizza come provvedimento prevalentemente lavoristico, che non considera adeguatamente la povertà come una condizione complessa e multidimensionale cui rispondere con una pluralità di interventi integrati e multidisciplinari da parte dei servizi pubblici territoriali -in particolare dei Servizi Sociali Professionali- volti a favorire l’inclusione sociale dei nuclei beneficiari.
Ai Comuni non viene riconosciuto il ruolo prioritario nella presa in carico -spostato sui Centri per l’Impiego- né il ruolo di attivatore, nell’ambito di una programmazione regionale che viene ridimensionata, del sistema integrato di servizi territoriali al fine operare una valutazione preliminare dei bisogni e di elaborare, in caso di bisogni complessi, un progetto di inclusione sociale personalizzato e multidimensionale.
La scarsa attenzione alla multidimensionalità della povertà è comprovata da diversi elementi. Su tutti: le misure sono rivolte ai componenti maggiorenni, trascurando, dunque, i bisogni dei minori -a cominciare da quelli educativi-, non si tiene adeguatamente in considerazione la presenza di soggetti disabili all’interno del nucleo, e risultano penalizzate le famiglie più numerose.
A queste criticità strutturali si aggiungono gli inaccettabili e discriminatori requisiti richiesti ai cittadini stranieri e un’articolazione dei criteri di accesso e del beneficio erogato iniqua nei confronti delle famiglie numerose e prive di patrimoni mobiliari o immobiliari.
Quanto al tema dell’offerta congrua la norma determina ingiustificate diversità di trattamento tra i beneficiari di RdC e la generalità dei disoccupati. La revisione dei parametri della distanza dalla residenza rispetto al luogo di lavoro proposto, per i primi risulta essere infatti molto più penalizzante.
Anche in materia di condizionalità, ovvero per le condizioni per le quali scatta la decadenza di parte o dell'intero sussidio, vengono introdotte diversità di trattamento. Infatti, mentre per i beneficiari della NASPI è prevista la possibilità di poter ricorrere, avverso le sanzioni irrogate dell’Inps, al “Comitato ricorsi di condizionalità” istituito in seno all’ANPAL, per i beneficiari di RdC non resta altro che la possibilità onerosa del ricorso amministrativo.
Allo stesso modo non convince affatto la previsione che l’assegno di ricollocazione, venga sospeso per tre anni per i disoccupati ordinari a favore dei soli beneficiari del RdC, in quanto entrambe le platee hanno necessità simili per collocarsi o ricollocarsi.
La condizione prevista dalla “condizionalità” in virtù della quale al beneficiario del RdC è fatto obbligo di dare la propria disponibilità a partecipare ad attività di pubblica utilità predisposti dai Comuni per non meno di 8 ore settimanali, elevabili fino a 16 previo consenso, preoccupa sia perché nei fatti l’imposizione di un lavoro gratuito si traduce nel “far pagare“ agli stessi percettori il loro sussidio economico del RdC, sia perché di fatto rischia di sostituire lavoro vero e proprio. In ultimo il rischio di replicare esperienze degenerate nel corso degli anni come per le LSU e LPU appare in tutta la sua evidenza.
Nel RdC assumono un peso rilevante le misure di politiche attive implementate però al solo fine della sua piena realizzazione e trascurando la loro vocazione più generale.
La misura, inoltre, sembra attribuire, nel contrasto alla povertà, un ruolo prioritario all’avvio al lavoro come risolutivo di tale condizione, senza tenere in considerazione che già oggi molti lavoratori sono poveri e che il nostro mercato del lavoro ha quote significative di sommerso o di nero. Per questo riteniamo che una misura di sostegno al reddito non possa essere scollegata dal tema della offerta di lavoro e dalla sua qualità.
Mentre risulta positiva la ritrovata centralità riservata ai CPI e l’aumento delle loro dotazioni organiche, rimane del tutto irrisolto il tema della loro scarsa dotazione strumentale, dell’assenza di un sistema informativo unitario, della necessità di avvio di un piano generalizzato di formazione, rimandando la soluzione di tali temi ad un Piano straordinario di potenziamento dei Centri per l’Impiego e delle Politiche Attive da attuare in collaborazione con le Regioni. Appare quindi irrealistico che in pochi mesi si possa determinare le condizioni per una capacità di risposta e di presa in carico che il decreto suppone.
Riteniamo del tutto ingiustificabile come ANPAL Servizi possa assumere 3.000 precari nelle forme di Co.Co.Co. e contemporaneamente non dia soluzione alla precarietà dei suoi 654 lavoratrici e lavoratori assunti con contratto a tempo determinato o di collaborazione da dieci anni.
Infine sulla prevista possibilità di poter stipulare il Patto di formazione per i beneficiari di RdC anche da parte dei Fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua, che per norma non erogano formazione ma bensì la finanziano, a differenza di quanto fanno gli Enti di formazione accreditati, va detto che questa risulta essere anche totalmente in contrasto con la loro natura di associazione tra parti sociali ai sensi dell’ Art. 118 della legge 388/2000.
Sul Reddito di Cittadinanza, dunque, non possiamo che confermare le criticità manifestate in prima lettura. L’interlocuzione con la maggioranza di Governo, nel corso dei lavori parlamentari, nonostante le proposte avanzate, non si è, purtroppo, tradotta nei correttivi che reputavamo necessari a correggere l’impostazione iniziale. Rimane quindi la necessità di mantenere alta l’attenzione nei territori sia sull’andamento delle domande e del riconoscimento dei beneficiari che sull’andamento della presa in carico, con l’obiettivo di monitorare l’andamento della misura anche al fine di proporre interventi correttivi.
Per quanto riguarda invece “quota 100”, pur consentendo a molti lavoratori un accesso anticipato alla pensione nel prossimo triennio, per il sindacato rappresenta solo l’inizio di un percorso più ampio descritto nella Piattaforma unitaria di CGIL, CISL e UIL che si è provato a tratteggiare in una serie di emendamenti che, purtroppo, non hanno trovato alcun riscontro nelle decisioni del Governo e nell’iter parlamentare di conversione del decreto, nonostante gli impegni assunti dal Sottosegretario del Ministero del Lavoro Claudio Durigon, durante l’incontro sulla previdenza con i Segretari Generali, dello scorso 25 febbraio.
I dati diramati dall’INPS confermano che quota 100 rappresenta un’opportunità per lavoratori con carriere continue e strutturate ma è decisamente meno accessibile ai lavoratori del settore privato del Sud e del tutto insufficiente per le donne, per i lavoratori con carriere discontinue o occupati in particolari settori produttivi caratterizzati da stagionalità o appalti, come quello agricolo o dell’edilizia, nei quali è difficile trovare un lavoratore con 38 anni di contributi.
Aver reintrodotto il meccanismo delle finestre è penalizzante, in particolar modo per i lavoratori del settore pubblico poiché per loro la finestra di accesso alla pensione è di 6 mesi. Sono penalizzati anche coloro che svolgono una delle 15 categorie di lavori gravosi oppure usuranti poiché il blocco dell’incremento per aspettativa di vita sulla pensione anticipata per questi lavoratori era già previsto e, invece, ora, per effetto delle “finestre”, devono attendere 3 mesi per ottenere il primo assegno pensionistico.
Il blocco sino al 2026 degli incrementi automatici dell’età pensionabile per le pensioni anticipate è un primo passo nella giusta direzione ma la finestra mobile di 3 mesi pospone la decorrenza della pensione e ne depotenzia l’effetto positivo.
Il tema dell’aspettativa di vita andrebbe visto nel suo complesso, non in modo parcellizzato, bisognerebbe superare la doppia penalizzazione che i lavoratori subiscono per effetto del contemporaneo aumento dell’età e la reversione dei coefficienti di trasformazione del calcolo contributivo della pensione.
La proroga solo fino al 2019 dell’Ape sociale, non è sufficiente, questa misura sarebbe dovuta essere prorogata fino al 2021, allineandola alla sperimentazione di “quota 100”, nell’attesa di una riforma più strutturale e organica che superi definitivamente la Riforma Fornero e renda strutturali le tutele previste a favore di quelle categorie.
L’anticipo del trattamento di fine servizio dei lavoratori pubblici tramite il prestito agevolato non è la risposta che da anni chiediamo rispetto alla liquidazione in tempi congrui delle liquidazioni nella Pubblica Amministrazione. Per questo riteniamo necessario un intervento che elimini il differimento oggi presente per il pagamento del Tfr e Tfs nel settore pubblico. L’innalzamento del limite da 30.000 a 45.000 euro allarga sicuramente i margini per la scelta del lavoratore ma si tratta comunque di una misura parziale, su cui rimangono molto incerti i tempi di erogazione di questo anticipo. Inoltre, con questo meccanismo vengono discriminati i dipendenti pubblici assunti dopo il 2000 ai quali si applica il regime del trattamento di fine rapporto (Tfr) perché l’agevolazione fiscale prevista ad essi non è applicabile.
L’introduzione del riscatto laurea o della pace contributiva per i periodi che si collocano dopo il 1995, non è sicuramente la soluzione delle problematiche presenti nel contributivo, in quanto sarebbe necessario introdurre una pensione contributiva di garanzia per le carriere lavorative deboli e discontinue. Sarebbe quindi necessario un meccanismo, collegato e proporzionato al numero di anni di lavoro e di contributi versati, che consideri e valorizzi previdenzialmente anche i periodi di discontinuità lavorativa, di formazione, di part-time o di basse retribuzioni nell’ottica di assicurare nel futuro un assegno pensionistico dignitoso.
Positivo l’obiettivo di rispondere alle esigenze di contrasto della povertà in età avanzata, che sta alla base della cosiddetta “pensione di cittadinanza”, ma lo strumento così definito avrà una platea molto ristretta, deve essere quindi strutturato e adeguato in linea con le prestazioni assistenziali-previdenziali esistenti per perseguire efficacemente gli scopi prefissati.
Restano quindi tanti profili del sistema previdenziale ancora da affrontare per una vera riforma organica dell’attuale impianto.