Un grande Gianni Rodari ( e pensare che era il 1968...)

 Bussetti: il grembiule rende uguali. Ma Rodari diceva: «La povertà va abolita, non nascosta»

«Avevo il grembiule col fiocchetto», racconta il ministro. «E’ utile alle elementari e medie per ridurre le differenze». Ripubblichiamo il pezzo sul tema del celebre scrittore per bambini

«Il senso di appartenenza al proprio istituto è una cosa bella che uno si porta dentro. Farlo anche attraverso il grembiule potrebbe essere positivo. Potremmo avviare una riflessione se introdurre sempre il grembiule nel primo ciclo di studi, quindi elementari e medie. Anche nelle superiori? Mi sembra eccessivo». Lo ha detto il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, a «Un Giorno da Pecora». «C’è necessità- ha aggiunto Bussetti- di evitare contrasti rispetto a un abbigliamento che potrebbe creare delle differenze da un punto di vista sociale. Si eviterebbe di mettere in difficolta’ alcune famiglie rispetto ad altre».«Quando andavo a scuola- ha concluso il ministro- il mio grembiule era nero con il colletto bianco e il fiocchetto».

Il testo di Rodari

Ecco che cosa scriveva nel 1968 lo scrittore Gianni Rodari sul Corrierino dei Piccoli a proposito della polemica «Ho seguito su un grande giornale una piccola polemica. Questa parola deriva dal greco “polemos”, che voleva dire “combattimento”. Ma per fortuna le polemiche giornalistiche si fanno senza bombe atomiche, con la penna o con la macchina per scrivere. Dunque un noto professore di pedagogia (che sarebbe la scienza dell’educazione) si diceva contrario all’obbligo per gli scolari di indossare il grembiulino, col collettino col fiocchettino: la tradizionale uniforme dentro al quale i bambini dovrebbero sentirsi tutti uguali di fronte al maestro, ma che contrasta con la personalità, lo spirito di indipendenza, la libertà dei bambini. Due madri di famiglia gli rispondevano sottolineando i vantaggi del grembiulino: economia, praticità, igiene, impossibilità (per le bambine specialmente di fare sfoggio di vanità. Voglio entrare anch’io nel “combattimento”. Sono armatissimo, perché ho chiesto l’opinione dei maestri che conoscevo. «Se non ci fosse il grembiulino i bambini poveri avrebbero l’umiliazione di mostrare le loro toppe nei pantaloni ai bambini ricchi, vestiti come figurini». Questo ragionamento non mi convince. La povertà va abolita, non nascosta. Bambini con le toppe nei pantaloni non dovrebbero essercene più, ecco tutto. Un altro maestro mi ha detto: «Il grembiulino aiuta la disciplina. Che cosa ne diresti di un esercito senza divisa, un soldato col maglione rosso, un caporale con il gilè a fiorellini?». Nemmeno questo ragionamento mi convince: la scuola non è una caserma. E sulla disciplina bisogna intendersi bene: secondo me una classe non è veramente disciplinata quando ascolta immobile e impassibile le spiegazioni del maestro, pena un brutto voto in condotta, ma quando sta facendo una cosa interessante, così interessante che a nessuno viene in mente di guardare dalla finestra, o di tirare le trecce alle bambine, o di leggere un fumetto sotto il banco. Un grembiule o magari una bella tuta da lavoro, mi sembra indispensabile se si fa giardinaggio, se si usa la macchina per stampare (molte scuole al usano), se si fanno pitture con grandi pennelli, per non sporcarsi. Cioè. Accetto il grembiule dove e quando è utile e necessario. Come simbolo di uguaglianza, disciplina, eccetera non lo capisco. Il fiocco, poi, dà proprio fastidio. In certe scuole lo fanno portare lungo lungo, largo largo. Prima si vede il fiocco poi il bambino che c’è dietro. Ma forse in quelle scuole li fanno scrivere col fiocco invece che con la penna. Senza offesa per nessuno, ho detto la mia. Se non siete d’accordo non tiratemi le pietre: tiratemi i collettini bianchi, che fanno meno male».

intervento di Carlo Ghezzi segretario nazionale ANPI


Palermo, 2 maggio 2019 - Incontro nazionale Spi-Cgil su "Dalla parte giusta. Memorie,
parole e azioni per la legalità". Intervento di Carlo Ghezzi, segretario nazionale
dell'ANPI, su "Il lavoro sotto attacco".


Vorrei tentare di mettere in evidenza alcuni fili rossi che percorrono la storia d'Italia e che ci aiutano a capire meglio il ruolo del lavoro e quello della Cgil e di illustrare perchè è giusto intitolare la nostra riflessione "Il lavoro sotto attacco". Questa nostra Italia è un paese giovane formatosi poco più di 150 anni fa. Conquistata l’unità e l’indipendenza, sconfitti i regimi reazionari e quelli legati a potenze straniere, si è costruito finalmente una nazione di dimensione europea ma, nel momento stesso nel quale l'Italia è nata, non si è affrontato in alcun modo il grande tema della questione sociale. I moderati, i liberali di Cavour insieme ai progressisti di Garibaldi e di Mazzini hanno prevalso sui conservatori e sui reazionari austriacanti, borbonici e papalini ma nessuno, nemmeno il Partito d’Azione, aveva posto in quel frangente la giustizia sociale come uno dei punti prioritari del proprio programma proponendosi invece prioritariamente il conseguimento dell'unità del paese e solo dopo l'affrontare i tantissimi problemi che erano in campo.


Così la nazione è nata e si è sviluppata con una base di consenso ristretta in riferimento alle classi dirigenti che la hanno governata e che hanno scelto di tenere fuori dallo Stato le grandi masse contadine cattoliche come quelle orientate a sinistra, dapprima segnate da culture anarchiche e successivamente da culture socialiste. Venivano esclusi in tal modo coloro che producevano la ricchezza in un paese che era ancora fondamentalmente agricolo e che vedeva l'industria crescere lentamente ma progressivamente nel triangolo industriale formato da Milano, Torino e Genova.


Non c’è stata nessuna significativa azione tesa all'inclusione delle grandi masse dentro lo Stato anzi, ogni qual volta i ceti subalterni hanno tentato di promuovere dei processi di emancipazione del lavoro e di affermazione dei suoi diritti sono stati affrontati dalle classi dirigenti come suscitatori di problemi di ordine pubblico e si è mostrato loro un volto feroce e aggressivo dello Stato: il gendarme ha sparato sugli operai, sui braccianti, sui minatori e in ogni angolo d’Italia vi sono tante lapidi che testimoniano le drammatiche memorie di questo passato. Alla fine dell’Ottocento, in Sicilia, dinanzi al problema della coltivazione delle terre e della sua regolamentazione si è sviluppato un imponente movimento: i Fasci siciliani.


Un movimento capace di organizzare grandi scioperi e di conseguire risultati significativi con la definizione di patti agrari laddove, tra agrari e contadini, era interfacciata una figura che aveva acquisito un enorme potere, il gabellotto mafioso che, prendendo in affitto enormi distese di terreni dalla nobiltà latifondista, li subaffittava sfruttando contadini, mezzadri, coloni e le loro famiglie.


I Fasci siciliani, guidati da Berardino Verro, un sindacalista che morirà alcuni anni dopo assassinato dalla mafia, rappresentarono un movimento di massa che chiedeva regole più giuste, certe e definite. I Fasci coinvolsero oltre trecentomila siciliani, con una vasta e impressionante partecipazione femminile. Fu un movimento che unificò in originali organismi di militanza non solo i contadini ma anche altri lavoratori manuali come braccianti, zolfatari, operai, artigiani; coinvolse anche studenti, piccoli e medi proprietari terrieri in lotta con i baroni e contro i potentati parassitari del latifondo; coinvolse impiegati e personale della pubblica amministrazione nonché educatori e in-segnanti di diverso ordine e grado.

I Fasci rappresentarono il più vasto movimento progressista apparso in Europa dopo la sconfitta della Comune di Parigi. I Patti di Cor-leone sottoscritti nel 1893 dai dirigenti dei Fasci con le loro controparti datoriali furono il primo esempio di un contratto sindacale scritto; non intendevano rivoluzionare i rap-porti di proprietà esistenti ma a modificare gli iniqui contratti di affittanza in essere. Ma quel movimento fu duramente represso nel sangue nel 1894 dal governo guidato da Francesco Crispi che decise la proclamazione dello stato d'assedio, l’arresto dei di-rigenti più importanti del movimento, numerose esecuzioni sommarie, carcerazioni di massa e l’invio di migliaia di attivisti al confino.


Mentre nel resto d’Europa si consolidava un sistema di relazioni difficile, complesso, ma tuttavia concreto tra imprenditoria, istituzioni e forze del lavoro che tendevano a riconoscersi reciprocamente e a stabilire tra loro rapporti pattizzi, in Italia si giungeva ai drammi del 1898 quando il generale Bava Beccaris arrivò a sparare a Milano con i cannoni in Piazza del Duomo contro gli operai che protestavano contro l’aumento del prezzo del pane provocando una efferata strage con 400 ammazzati.


Un filo terribile percorre le diverse epoche della storia d’Italia. Ogni qualvolta le lotte del lavoro diventano incontenibili utilizzando gli strumenti ordinari del confronto de-mocratico, una parte delle classi dirigenti del nostro paese sceglie di far saltare le regole della convivenza civile e di usare la violenza come strumento al quale ricorrere senza troppi patemi d'animo nella battaglia politica contro i lavoratori, mai pienamente rico-nosciuti nella loro autonoma rappresentanza. Una violenza contro quella che veniva regolarmente considerata non una parte del popolo italiano che portava avanti le pro-prie istanze, ma un “nemico interno” da contrastare con ogni mezzo e da escludere dalla gestione dello Stato. Dopo l'eccidio perpetrato da Bava Beccaris, l’anarchico Bresci ammazzerà il re Umberto I che aveva premiato il generale per quei fatti e una parte delle classi dirigenti italiane comincerà a ritenere che forse non era la strada giusta quella che si stava percorrendo.


Si vivrà all'inizio del ventesimo secolo un breve ciclo politico liberale del quale Giolitti emergerà come l'esponente principale. Giolitti è il primo statista in Italia che sostiene apertamente che il conflitto sociale è un dato fisiologico, che il carabiniere deve star-sene fuori, che se la vedano tra loro sindacati e imprenditori – nel 1906 nasce la Cgil e nel 1910 nasce Confindustria - e che si facciano i contratti con le piattaforme, gli scio-peri e gli accordi possibili. La stagione giolittiana sconta però un limite: funziona al Nord dove vi è la prima industria nascente, ma non assolutamente nel Mezzogiorno dove il gendarme continua a sparare sui braccianti e sui minatori.


Non funziona in Sardegna dove nel 1904, nel corso di un normale vertenza per l’appli-cazione dell’orario di lavoro, i carabinieri effettuano una sparatoria e uccidono nume-rosi minatori a Buggerru e siccome molte strutture sindacali minacciavano da tempo che alla prossima strage perpetrata ci sarebbe stato uno sciopero generale, in Italia nel 1904 si registrerà il primo sciopero generale proclamato in Europa che verrà procla-mato dalle Camere del Lavoro di Monza e di Milano.

Uno sciopero non indetto per il salario, per l'orario o per le qualifiche, ma per il diritto a poter protestare senza essere ammazzati. Il giolittismo comincerà così ad incrinarsi e procederà a tentoni fino a so-stenere l'avventura coloniale in Libia mentre nel paese seguiterà a vivere in una demo-crazia fragile destinata a prefigurare nuove sciagure. Si arriverà così alla prima guerra mondiale, al biennio rosso e infine al prevalere del fascismo.


Il fascismo sancisce definitivamente la negazione della libertà e della democrazia e ricorre diffusamente all’uso della violenza come strumento della battaglia politica. Mussolini vince su due terreni: quello del ricorso alla violenza contro gli avversari e quello della insipienza politica dei suoi avversari che non sanno comprendere piena-mente quanto sta avvenendo e rifuggono dal fare unitariamente muro alla resistibile avanzata del regime. Dopo la marcia su Roma il primo Governo Mussolini conta solo su 35 deputati fascisti su 535 parlamentari eletti ma si regge su impensabili sostegni forniti da molti deputati democratici cattolici e liberali, dalla borghesia e sopratutto del re.

Fino a che non si arriverà alle elezioni del ’24 e all’assassinio di Matteotti, Musso-lini nel ’22, ’23 e nella prima parte del ‘24 governa l’Italia con delle larghe intese nelle quali è abilissimo nel tenere insieme tante espressioni politiche diverse giocandole con-tro i suoi avversari. Persino la segreteria della Cgil viene tentata dalla collaborazione "tecnica" con il Duce sostenendo che siccome si è sindacalisti si ha il dovere di con-trattare sempre a favore dei propri rappresentati, anche nelle situazioni più difficili, che bisogna contrattare anche se si può portare a casa solo qualche briciola.


La borghesia italiana spaventata da un biennio rosso che tuttavia era già finito, morto e sepolto e da una rivoluzione proletaria che dopo il '17 sovietico era già ampiamente fallita in tutta Europa, pur di difendere i propri interessi nasconde la testa sotto la sabbia e ignora completamente la violazione delle regole, della democrazia, della convivenza civile. Si arriverà rapidamente al regime, alle leggi liberticide, poi alle avventure colo-niali caratterizzate da sanguinose repressioni delle popolazioni locali, alle leggi razziali e infine alla guerra a fianco dei nazisti e dei giapponesi.


L’Italia si butterà nella tragedia del conflitto mondiale in modo avventuroso e criminale ma quando Stalingrado resiste e Rommel viene sconfitto in Africa, gli Italiani capi-scono verso la fine del 1942 che la guerra è persa e si interrogano angosciosamente su cosa fare, su come uscire da quel disastro.
Si interroga Confindustria, si interroga la Chiesa, si interroga la Corona, si interroga la pubblica amministrazione, si interroga l’esercito, si interrogano gli intellettuali, si in-terrogano settori dello stesso fascismo; ma nessuno si muove.


Chi si muove sono solo i lavoratori, sono quei ceti subalterni contro i quali il gendarme aveva sempre sparato. Vi sono i grandi scioperi del ’43 a Torino e a Milano. Vi sono quelli del ’44 ancora più imponenti a Torino, a Milano, a Genova e a Venezia con un milione di lavoratori che incrociano le braccia realizzando la più grande manifestazione di massa mai vista in Europa in un paese occupato dai nazisti.


Ne parla con ammirazione la grande stampa internazionale mentre il lavoro, col suo protagonismo, svela tutte le debolezze del fascismo che la guerra ha messo in luce e da li parte la Resistenza. Passando per l'otto settembre del 1943 e per lo sbarco in Italia degli anglo-americani, per la costituzione del CLN e del suo comando militare unitario si giungerà all'insurrezione vittoriosa del 25 aprile del 1945, poi al 2 giugno 1946 con la scelta della Repubblica.

La Resistenza e il lavoro permettono ad Alcide De Gasperi di sedersi con dignità al tavolo della pace a Parigi, nel 1947, nonostante l’Italia fosse stato uno dei paesi pro-motori della guerra. La Resistenza vittoriosa porta il nostro paese al voto popolare per l’elezione dell’Assemblea costituente facendovi partecipare per la prima volta anche le donne e alla promulga della nostra Carta costituzionale che al suo primo punto recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Alla Germania e al Giap-pone sconfitti, tutto questo non venne consentito.


Si ha nella Costituzione italiana il riconoscimento pieno dei diritti dei lavoratori e il riconoscimento della dignità di quegli “antichi sovversivi” tenuti costantemente ai mar-gini dello Stato e che invece, tra il 1943 e il 1945, avevano saputo assolvere una grande funzione nazionale concretizzando in tal modo quel secondo Risorgimento che ha com-pletato il primo portando le grandi masse popolari, protagoniste nella Resistenza, fi-nalmente dentro lo Stato. La Resistenza e quelle lotte dei lavoratori hanno portato a un patto nazionale le cui radici sociali sono chiare, nette e ben visibili.


Ma le antiche degenerazioni che avevano contraddistinto la storia del nostro paese sono però riapparse anche nell'Italia repubblicana e tante lotte del lavoro sono state segnate, pressochè uniche nell’Europa moderna, dal sangue versato in tante fabbriche e in tante campagne riprendendo la pratica del drammatico e vecchio vizio italiano: usare la violenza per contenere le battaglie per l’emancipazione del lavoro.


Alla fine del secondo conflitto mondiale i lavoratori siciliani erano tornati a chiedere lavoro e diritti e a rivendicare la definizione della riforma agraria che desse loro la possibilità di lavorare le grandi proprietà terriere, in gran parte incolte, che comincia-rono a occupare. Guidati dalla Cgil unitaria e dalle forze politiche di sinistra, seppero costruire un grandioso movimento di lotta per l’applicazione dei decreti Gullo e con-seguirono degli straordinari risultati alle elezioni siciliane dell'aprile 1947. I lavoratori delle campagne si battevano per la prima volta dalla parte dello Stato, le grandi masse contadine si battevano per l’applicazione delle sue leggi.

 

Spaventati da quel grande movimento, gli agrari più reazionari e la mafia fecero sparare dagli uomini di Salvatore Giuliano sui braccianti che il Primo maggio 1947 celebravano con le loro famiglie la festa del lavoro a Portella della Ginestra: vi furono undici morti e molti feriti. Fu la prima strage della storia della Repubblica e come tante altre stragi, sarebbe rimasta sostanzialmente impunita.


Contro le lotte bracciantili di quegli anni, prima e dopo la strage di Portella, si perpetrò l’assassinio mirato di un grande numero di sindacalisti siciliani promosso sempre dagli agrari e dalla mafia. In pochi anni ne vennero uccisi trentasei senza che alcun mandante o alcun esecutore sia mai stato arrestato e condannato. I nomi più noti dei sindacalisti assassinati sono quelli di Accursio Miraglia, di Placido Rizzotto, di Salvatore Carne-vale per finire infine con Pio La Torre, assassinato il 30 aprile del 1982.


Anche nel resto del Mezzogiorno le lotte bracciantili che miravano a ottenere la riforma agraria si erano riaccese nell'immediato dopoguerra e queste mobilitazioni furono an-cora segnate dalla dura repressione poliziesca; drammaticamente rilevanti furono gli eccidi di braccianti avvenuti a Melissa, in Calabria, a Montescaglioso, in Basilicata, a Celano, in Abruzzo e a Torremaggiore, in Puglia o di operai come a Modena. Sarebbe stato assolutamente impensabile che negli stessi anni in Francia o in Inghilterra o in Danimarca, in Austria o in Svizzera si sparasse ancora sugli scioperanti come invece è successo da noi.
La Cgil, guidata da Di Vittorio, comprende rapidamente che si va verso lo svuotamento della Costituzione non solo nel paese ma soprattutto nelle fabbriche e nelle campagne. Lancia dapprima la proposta del Piano del lavoro e poi quella di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Nella sostanza Di Vittorio propone al paese lo sviluppo economico, il più ampio livello di occupazione possibile ma con le regole e con i diritti. Il lavoro, senza il riconoscimento della sua piena dignità e senza i suoi diritti non è quello di cui parla la Costituzione nel suo primo articolo, ma è un'altra cosa.


Gli anni ’50 sono stati anni terribili per i lavoratori italiani con le divisioni della guerra fredda, con il sindacato che non contava quasi niente, con il mondo del lavoro che viveva una condizione pesante con l’economia che continua a crescere mentre i diritti erano pochissimi, il sistema di welfare ridotto all’osso, i salari tra più bassi d’Europa insieme a Portogallo, Grecia e Spagna.


Si va avanti così fino al ’60 quando si manifesta la prima rottura di questo pesante cappa con i moti di Genova animati dai ragazzi dalle magliette a strisce, con il Governo clerico-fascista di Tambroni che viene cacciato dopo i morti di Reggio Emilia e della Sicilia, con la svolta della politica italiana verso il centro-sinistra. Nel ’60 succede un altro fatto importante: per la prima volta i lavoratori elettromeccanici cominciano a praticare forme di unità d’azione a Milano e a Brescia.


Il ’60 termina con 100.000 lavoratori elettromeccanici che il giorno di Natale manife-stano a Milano in Piazza del Duomo per il rinnovo del loro contratto di settore mentre il cardinale Montini, che diventerà Papa Paolo VI, da dentro la cattedrale ambrosiana saluta coloro che si battono per una maggior giustizia sociale. Si avvia la riscossa ope-raia che cresce e che si consolida. Quelle lotte posero al paese il problema del rapporto tra il diritto di partecipare e di manifestare e la gestione dell’ordine pubblico. Ma anche la destra eversiva tenderà ad attrezzarsi perchè dopo Genova mai più la mobilitazione popolare avrebbe dovuto condizionare il quadro politico e si avvieranno le iniziative che prenderanno corpo con il Piano Solo del 1964 e con il convegno del 1965 all'hotel Parco dei Principi che avvierà la strategia della tensione.


Con l’unità d’azione del sindacato e con le sue prime conquiste contrattuali si prepara pazientemente l'esplosione del ’68-’69 e il mitico autunno caldo. Non dimentichiamo che il ’68 in Francia dura un mese, il maggio, poi finisce tutto. In Italia il sindacato diviene invece il maggior protagonista sociale di una stagione assai lunga, conquista ottimi contratti, istituisce nuovi strumenti partecipativi con i Consigli dei delegati e avvia un decennio di importanti riforme sociali partendo da quella delle pensioni.
In quelle stagioni il mondo del lavoro, con un ciclo eccezionale di mobilitazioni, dice in sostanza che non si può più andare avanti con bassi salari, gabbie salariali, orari di lavoro e condizioni ambientali massacranti, poco welfare e pochi diritti.

Noi non ci spiegheremmo l’intensità e l'efficacia che ha avuto il ciclo di lotte se non valutassimo la capacità del sindacato di tenere insieme verticalità e orizzontalità nella sua azione; battaglie generali su pensioni, casa, sanità e gabbie salariali portate avanti dal riformi-smo sociale del sindacato mentre i contratti del ’69, del ’73, del ’76 portano le condi-zioni di lavoro in Italia quasi a livello europeo. Per altro verso nel campo dei diritti civili il Parlamento approva importanti leggi sul diritto di famiglia, sul divorzio, sull'a-borto nonchè lo Statuto dei lavoratori che finalmente porta la Costituzione dentro i luoghi di lavoro. La grande spinta al cambiamento che emerse dal mondo del lavoro venne recepita dal sindacato che, non senza resistenze interne, la fece propria e a sua volta seppe trasformarsi profondamente. Non venne invece colta dalla politica italiana che non prefigurò degli sbocchi politico-istituzionali adeguati.


Contro questo scenario ricco di grandi potenzialità ecco però ritornare il vecchio mo-stro: l’autunno caldo si chiude con la strage di Piazza Fontana e riappare, così come era stato in tanti decenni della storia d’Italia, la violenza come strumento corrente della battaglia politica. Una parte delle classi dirigenti, appoggiata dall’atlantismo più ol-tranzista, scatena in Italia una stagione di terrore tesa a fermare possibili sviluppi che innovino la scena politica italiana e per ricacciare indietro le forze del lavoro e le loro rappresentanze. Negli anni ’60 si visse in Italia un clima preoccupato perché nella vicina Grecia, attraversata da aspri scontri politici e sociali, erano cominciati ad appa-rire attentati organizzati dalla destra più estrema che però riuscì ad incolpare degli stessi la sinistra finché, nel ’67, i colonnelli ordirono un colpo di Stato militare che portò il paese a un regime dittatoriale.


L'Italia stava nel mezzo del Mediterraneo con, da una parte, la Grecia dei colonnelli e, dall’altra parte, la Spagna e il Portogallo con i due fascismi di Franco e di Salazar. La difesa della democrazia e della convivenza civile divennero per noi un impegno straor-dinario alla testa del quale convintamente si pose il sindacato affiancato da un ampio schieramento di forze politiche, sociali e culturali.


Il terrorismo nero ha tentato di attuare in Italia lo stesso schema sperimentato in Grecia. Il 12 dicembre del 1969 dopo la strage di Piazza Fontana non erano ancora arrivate le ambulanze e i vigili del fuoco che il questore di Milano già sosteneva che erano stati gli anarchici; lo disse subito al sindaco Aldo Aniasi come ai giornalisti nel tentativo di scaricare sulla sinistra, sui sindacati, sui movimenti progressisti il disorientamento e le paure che dilagavano.


L'utilizzo della violenza nera e brigatista lascia una tragica scia di sangue e non ha eguali in altri moderni paesi europei. Dal ’69 a metà degli anni Ottanta sia avranno 450 morti per fatti di terrorismo e a Bologna, in particolare, si assistette a diverse stragi. Vi saranno più di 4.000 condannati, oltre 10.000 inquisiti e numerosi protagonisti sa-pranno sfuggire ad ogni rete di contenimento.


Il sindacato non si è mai defilato di fronte a ogni azione che manifestasse un carattere eversivo, non è mai mancato a un appuntamento, ha sempre chiamato unitariamente alla mobilitazione unitaria e di massa, alla vigilanza democratica, alla risposta pronta e puntuale. Ha ribattuto colpo su colpo di fronte al terrorismo e alla eversione di ogni colore, a partire dallo sciopero generale in solidarietà ai famigliari delle vittime e a difesa della democrazia proclamato da Cgil, Cisl e Uil milanesi in occasione dei fune-rali dei diciotto uccisi nella strage di Piazza Fontana. Quella piazza del Duomo, stra-piena di lavoratori che partecipavano alle esequie, ha parlato all'Italia e ha segnato i comportamenti che il sindacalismo confederale avrebbe manifestato di fronte ad ogni attacco. Il terrorismo nero in Italia colpisce pesantemente, non usa tante pistole, usa invece tante bombe ma l’opinione pubblica non la beve, si rende conto che è un’operazione orchestrata dalle destre eversive e lo schieramento democratico e anti-fascista tende a rafforzarsi. A quel punto, cominciano a prendere sempre più corpo nella realtà italiana altri fenomeni eversivi che daranno vita al terrorismo rosso, alle Brigate Rosse, a Prima Linea e a quant’altro.

Parte di questo sommovimento sostiene che la Resistenza è stata tradita, che doveva finire con una rivoluzione proletaria e che i terroristi rossi sono i nuovi partigiani che debbono preparare la presa del potere da parte della classe operaia. Un altro segmento sostiene invece che siccome sta realiz-zandosi in Italia quanto già successo in Grecia, si è obbligati ad attrezzarsi adeguata-mente. Progressivamente questo terrorismo si manifesta con l'uso di tante pistole, com-piendo attentati, gambizzazioni, omicidi fino ad arrivare a rapire e ad uccidere Aldo Moro, a tentare l’attacco al cuore dello Stato. Tutte queste stragi e questi omicidi sono nei fatti messi in campo per arrestare il cammino delle forze del lavoro e per condizio-nare le evoluzioni potenziali che le battaglie delle forze di progresso avrebbero potuto fare avanzare nell'insieme della società italiana.


Stragi e omicidi il cui contrasto ha assorbito energie enormi che si dovette necessaria-mente dislocare sul fronte della difesa della democrazia e della convivenza civile, e ricordo le sofferenze e le angosce che Luciano Lama esprimeva in merito quando ci ripeteva che a nessun sindacato europeo era mai stato richiesto un dispendio di energie umane e politiche tanto grande.
Energie enormi che sono state purtroppo sottratte a battaglie per un cambiamento del nostro paese sempre caratterizzato da una convivenza civile messa a dura prova. Pur tuttavia la nostra democrazia ha saputo superare queste durissime prove pur pagando dei prezzi molto pesanti. Prezzi tremendi pagati dallo stesso sindacato a partire dalla strage fascista di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 fino all’assassinio del delegato della Fiom Guido Rossa a Genova nel 1979.


È stata quella una battaglia contro il partito armato e le sue azioni, una battaglia cultu-rale e politica condotta per lunghi anni per sensibilizzare le coscienze, per sconfiggere le pigrizie, per dipanare le incomprensioni su quanto stava accadendo.


Una battaglia ampia, partecipata, democratica e di massa contro il terrorismo, il nemico più insidioso per le fragili istituzioni repubblicane; una battaglia indubbiamente diffi-cile da dirigere e da gestire. Come tutte le grandi battaglie politico-culturali, ha avuto una sua ovvia processualità e ha dovuto superare problemi e titubanze: via via ha però acquisito una forza e una consapevolezza crescenti in difesa della democrazia e della convivenza civile, nel riaffermare il valore della vita delle persone, il rifiuto della vio-lenza, per indicare nel confronto, nel dialogo, nella partecipazione democratica gli unici strumenti atti a sostenere politiche di cambiamento.


È stato grazie all’opera di uomini di personalità come Luciano Lama, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer, Arrigo Boldrini, Benigno Zaccagnini o come tante altre figure si-gnificative della società italiana, se la fragile democrazia italiana non è crollata sotto i colpi convergenti di tante forze eversive nazionali e internazionali, cosa che invece è avvenuta per la Grecia, per il Cile o per l'Argentina.


Il sindacato unitario si è posto sempre, tenacemente, puntualmente e visibilmente alla testa di un grande schieramento popolare chiamato a guidare una battaglia politica complessa, con l’obiettivo di orientare grandi masse di cittadini, di lavoratori e di studenti verso la corretta comprensione dei fatti e l’impegno conseguente per contra-stare ogni lassismo e ogni tentazione di collocarsi nella cosiddetta “zona grigia”. Un’area che in una prima fase è stata pur presente nella società italiana, in settori di intellettualità come in alcuni ceti popolari che non esprimevano consenso al partito armato ma, al tempo stesso, non ne esplicitavano una convinta ripulsa, non lo condivi-devano, ma non si rendevano pienamente conto del pericolo reale che si stava svilup-pando.

A distanza di alcuni anni, possiamo oggi constatare che quella battaglia terribile contro l’eversione sia stata indubbiamente vinta dalla democrazia italiana dopo che il terrorismo è stato isolato politicamente nella coscienza popolare come premessa della sua successiva sconfitta militare. Possiamo sicuramente rivendicare oggi con orgoglio che questa battaglia è stata vinta grazie a uno straordinario contributo delle forze del lavoro e dei loro sindacati che sono stati il sostegno fondamentale della diga contro il terrorismo innalzata dai democratici italiani.


Una vera e propria diga democratica per la tempestività con la quale il sindacato si è mobilitato dopo ogni attacco alla convivenza civile, per la dimensione di massa che ha saputo dare alle sue iniziative, per la battaglia politica e culturale che ha condotto nelle fabbriche, negli uffici e nel paese.


Quando avviene la strage di Piazza della Loggia e arrivano a Brescia ai funerali il Pre-sidente della Repubblica e il premier Mariano Rumor sono i servizi d’ordine del sin-dacato che devono a fatica contenere la rabbia che le persone esprimono contro le Isti-tuzioni che non fanno il loro dovere e il comizio finale è affidato a Luciano Lama. Quando le Brigate Rosse rapiscono Moro, nel pomeriggio stesso Cgil, Cisl e Uil indi-cono subito una grandiosa manifestazione in Piazza San Giovanni, e il comizio è sem-pre tenuto da Luciano Lama. Il terrorismo, rosso e nero è stato sconfitto anche perché tanti lavoratori, tanti delegati, ci hanno messo la faccia, non solo nel far capire che cosa succedeva ai loro compagni di lavoro, ma anche nel denunciare avvenimenti che stra-volgevano la convivenza civile. Ma se in questo paese vi è stata una impegnata difesa della democrazia, è perché il sindacato ha svolto questo ruolo.


Anche dopo l’uccisione di Falcone, della sua compagna e della sua scorta, il 27 giugno 1992 Cgil, Cisl e Uil hanno organizzato a Palermo la più grande manifestazione che si sia tenuta contro la mafia, chiusa da un comizio di Bruno Trentin e convocata sulla parola d'ordine "L'Italia parte civile contro la mafia". Nel capoluogo dell'isola si ritro-varono oltre centomila manifestanti provenienti, con treni, navi e aerei, da ogni parte d'Italia. E’ stato dunque un ruolo grande quello assunto e svolto dal sindacato, un ruolo che nessuno oggi più ci riconosce; questo sindacato è sbeffeggiato, è maltrattato, ci si dicono che siamo vecchi, che vogliamo mettere il gettone nell’Iphone

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Un grande ruolo della Cgil e dei sindacati confederali per fare progredire Italia c’è visibilmente stato e ha continuato a vivere nel corso dei decenni; siamo stati la diga a difesa della democrazia, non da soli, ma indubitabilmente la diga principale.


Questa nostra grande funzione è oggi disconosciuta; ci si dice che siamo vecchi, che siamo inutili, ci si sbeffeggia sostenendo che vogliamo mettere il gettone nell'iPhone mentre abbiamo contribuito massicciamente a sconfiggere il fascismo durante la Resi-stenza, ad estendere diritti civili e sociali nella vita della Repubblica, a difendere la democrazia quando è stata attaccata.

Voglio terminare ribadendo che tante nostre energie non sono state impegnate per cam-biare, ma sono state utilizzate per impedire all'Italia di andare indietro e, tutto sommato, il fenomeno terroristico che è durato da noi così tanto, è stato un fenomeno che è servito a stabilizzare il sistema, a conservarlo. E se tutte quelle energie avessimo potuto inca-nalarle per cambiare invece che per difenderci, questo paese sarebbe oggi decisamente un paese diverso, un paese più giusto e più avanzato.

Sanità in montagna: dei risultati sono stati ottenuti, ma molto ancora deve essere fatto!

Il documento che è stato redatto dalla Direzione Sanitaria della ASL Toscana Centro, relativo alle problematiche dell'assistenza sanitaria nel comprensorio della montagna pistoiese, poggia su di un elemento di grande novità: la necessità di riqualificare l'offerta assistenziale sanitaria per rispondere ai bisogni di salute dei cittadini residenti in alcune aree, denominate “aree interne”.
In questa zona montana che ha in comune con altre aree simili una bassa densità di popolazione e la difficoltà di accesso ai servizi primari, grava anche un indice di vecchiaia molto più elevato rispetto alla restante parte della provincia. Nello specifico, la ASL ha programmato il potenziamento delle attività ambulatoriali, dell'emergenza-urgenza, dell'assistenza domiciliare e delle cure palliative attraverso modifiche degli organici infermieristici e medici, della dotazione strumentale fissa e mobile nonché attraverso l'implementazione di progettualità innovative come la telemedicina e la radiologia a casa del paziente. Per tutto questo lo riteniamo un buon documento, che contiene premesse e promesse importanti.
Questo approccio si confronta con una richiesta reiterata nel tempo anche attraverso la raccolta di numerose firme di cittadini residenti nei quattro comuni del comprensorio attraverso comitati locali che si può sintetizzare nel riconoscimento di “zona disagiata”, nella riapertura dell'Ospedale di San Marcello integrata dal potenziamento del suo Pronto Soccorso, valorizzando scelte strategiche che diano risposte alla salute e sicurezza dei cittadini.
A nostro avviso il documento della ASL ha il merito di avviare per la prima volta una revisione delle strategie fin qui adottate basata su una misurazione puntuale dei bisogni di salute in ambiti definiti (anche attraverso il contributo dell'Agenzia Regionale di Sanità) e, conseguentemente, sulla programmazione di interventi mirati ad incidere sulle problematiche.
Pur recependo alcune proposte avanzate dalla nostra Organizzazione, ravvisiamo l'esigenza di rimarcare la necessità che siano esplicitate puntualizzazioni sul cronogramma degli interventi programmati insieme a specifiche sulle modalità con cui si prevede di procedere.
Ad esempio, nella sperimentazione dell'impiego della telemedicina che di sicuro ha molte potenzialità e che potrebbe anche trarre vantaggio da competenze di una importante risorsa presente sul territorio regionale come la Scuola Superiore S. Anna di Pisa.
Ci sembra anche utile rilanciare ipotesi da noi delineate in precedenza: la possibilità di effettuare a domicilio trattamenti con farmaci di uso ospedaliero (esperienze sono state condotte con ottimi risultati sul territorio della ex ASL 3); avviare da subito una revisione sulla casistica in emergenza-urgenza per verificare il livello di corrispondenza reale, nella dimensione operativa, con linee-guida e protocolli; attuare nell'oncologia, che comporta - come affermato – i tassi di mortalità standardizzata più pesanti, programmi di miglioramento della partecipazione agli screening anche attraverso strategie di sensibilizzazione e comunicazione, programmi di miglioramento nell'accesso alle cure e il lancio di campagne di prevenzione primaria e secondaria rispondenti agli orientamenti che emergono con più evidenza dalla letteratura sulle singole patologie (colon-retto, mammella, stomaco e polmone in particolare) con l'obiettivo preciso di ridurne la mortalità stessa.
Come rimane necessaria una riflessione sul numero (insufficiente per noi) dei “medici di famiglia” presenti sulla montagna e sulla necessità di avere anche un numero di ambulatori sufficienti senza costringere numerosi cittadini a spostamenti inaccettabili. E’ anche necessario aumentare i letti di cure intermedie, senza dimenticare il potenziamento dell’assistenza infermieristica domiciliare. Va risolto poi (definitivamente) il problema riguardante la piazzola per l’atterraggio dell’elisoccorso (inaugurata nel 2017).
Tutto questo (e forse altro ancora!), se condotto con convinzione, precisione e competenza può migliorare realmente lo stato di salute della popolazione della montagna indipendentemente dalla riapertura dell'ospedale. Così facendo si concretizzerebbe l'opportunità di avviare in quest'area un'esperienza che può fare da guida per altri territori della Toscana (e non solo).
Ci dichiariamo interessati a proseguire su questa linea in un confronto serio, con i cittadini e le istituzioni, totalmente depurato da eventuali strumentalizzazioni di qualunque parte politica e focalizzando l'attenzione sulle aree interne con lo scopo di perseguire obiettivi di superamento delle iniquità .

Medici CGIL regionale

CGIL Pistoia

SPI CGIL Pistoia

Lega SPI CGIL Montagna

FP CGIL Pistoia

Sanità pubblica a Pistoia: un caso su cui riflettere (con alcune domande...)

Vi racconto il percorso che un cittadino pistoiese ha dovuto fare in relazione ad un piccolo intervento chirurgico a cui si è sottoposto. Nel mese di novembre 2018, con il certificato del medico con cui si richiedeva visita chirurgica per probabile ernia inguinale, si è recato al CUP dove è stato informato della possibilità di avere l’appuntamento nei 10 giorni previsti. L’unico problema era che la visita doveva essere fatta all’Ospedale di San Marcello pistoiese, a 30 km dalla residenza dell’utente. Gli hanno fatto presente che se non poteva andare a San Marcello poteva recarsi a Pescia , ma nel mese di gennaio. Alla domanda “quando posso andare a Pistoia?” , la risposta è stata “non è dato sapere”. Allora, di buon grado, visto che non aveva problemi sul lavoro e che poteva guidare l’auto, si è recato a San Marcello. Il 4 dicembre alle ore 14,00 si svolge la visita, con puntualità e molta professionalità da parte del personale pubblico presente. Gli viene detto che non è certa la data dell’intervento: possono passare 5 mesi, 12 mesi o anche di più. Comunque viene messo in lista di attesa. Prima domanda: ma se il cittadino in questione fosse stata una persona anziana, senza patente, senza nessun familiare disponibile, come ci sarebbe andato a San Marcello Pistoiese a farsi visitare?
Nel mese di marzo una telefonata dell’Azienda Sanitaria Toscana Centro lo informa che è possibile operarsi quasi subito ma solo se è disponibile ad andare alla clinica privata (ma convenzionata) “Leonardo” a Sovigliana (Empoli). Se non può o non vuole deve aspettare i tempi non prevedibili per Pistoia. Decide di operarsi alla clinica "Leonardo " anche perché, come per San Marcello, non ha problemi a guidare e spostarsi ed ad avere poi un familiare che lo accompagnerà il giorno dell’intervento. Seconda domanda: ma se un familiare disponibile non ci fosse stato?
Data la sua disponibilità gli comunicano che deve comunque fare una nuova visita (7 marzo) all’ospedale di Pistoia, in chirurgia, per avere l’autorizzazione definitiva ad operarsi in quella struttura privata. Dopo una quindicina di giorni viene raggiunto da una telefonata della clinica “Leonardo” che comunica la data della preospedalizzazione (28 marzo) per le analisi di routine (sangue, cardiologo e anestesista). Anche in questo caso, viaggio in auto con familiare. La clinica è una bella struttura con personale molto gentile, disponibile e professionale.
Dopo pochi giorni dalla preospedalizzazione arriva la telefonata: l’operazione si farà il 16 aprile. Ricovero alle ore 7, dimissioni verso le ore 17. Vietato guidare, per cui farsi accompagnare da un familiare (o a pagamento con Croce Verde o Misericordia...). Colto da curiosità, il cittadino pistoiese chiede chi sarà ad operarlo. La risposta è questa: "verrà, quella mattina, il chirurgo dall’ospedale di Pistoia". Alla domanda: ma perché tutto questo? La risposta è stata: per abbattere le liste di attesa. L’azienda sanitaria Toscana Centro ha deciso di affittare le sale operatorie (e relativo personale necessario, escluso il chirurgo) della clinica privata e lì spostare una serie di interventi in lista di attesa. Ovviamente quel giorno il chirurgo che si sposta a Sovigliana- Empoli non opera a Pistoia e non usa le sale operatorie che ci sono all’ospedale San Jacopo di Pistoia. Terza domanda: ma se a Pistoia ci sono 13 sale operatorie e normalmente ne vengono usate 5/6, perchè non cercare di utilizzare quelle “vuote”? La risposta è stata: perché mancano anestesisti, ferristi, infermieri pubblici per tenerle aperte (che comunque sono state costruite, attrezzate con soldi pubblici).
Allora, partendo dal fatto che non sono un esperto e che non ho la verità in tasca, ma questa soluzione (che può essere una risposta momentanea ma solo per l’emergenza liste di attesa) a me sembra alquanto fantasiosa e irreale. Che si affittino sale operatorie in strutture private (che ovviamente ci guadagnano), che si spostino i chirurghi dipendenti pubblici per operare in queste struttre, che si “costringa” i pazienti a spostarsi da Pistoia a San Marcello poi di nuovo a Pistoia, per poi andare a Sovigliana per la preospedalizzazione e poi per tornare a Sovigliana (Empoli) per l’operazione a me sembra cosa poco saggia e giusta. Va bene, lo ripeto, può andare bene per dare una risposta immediata all’emergenza liste di attesa, ma con la consapevolezza che non può essere la soluzione definitiva al problema e che, continuando così, si continua a penalizzare soprattutto chi è solo, anziano, senza mezzo di trasporto personale o familiari.
Insomma, c’è da che riflettere e credo che ci sia bisogno di scelte più radicali (assunzione del personale necessario e più risorse economiche), se non vogliamo non solo continuare in questa strisciante privatizzazione del sistema sanitario pubblico, ma continuare a penalizzare i più deboli.

Andrea Brachi
segretario generale SPI CGIL Pistoia

ps: comunque mi sto rimettendo bene dall’operazione e approfitto per ringraziare tutto il personale sanitario (pubblico e non) che ha dimostrato professionalità, disponibilità e cortesia (meno il Presidente Rossi e l’assessore Saccardi...

Nuova sede Lega SPI CGIL Montagna

Care compagne e compagni,
da pochi giorni lo SPI regionale ha acquistato i locali della Confartigianato a San Marcello Pistoiese (confinanti con l'attuale sede della CGIL). Per cui raddoppiamo i locali che, per 99 anni, sono stati dati in commodato d'uso gratuito allo SPI di Pistoia e di conseguenza alla Lega SPI CGIL della Montagna. Continua l'impegno dello SPI regionale a favore dei territori e delle Leghe SPI.
Ora si tratta di allestirla, riorganizzare gli spazi e soprattutto "farla vivere". Compito che spetta alla Lega della Montagna ma non solo. Diventa sempre più necessario che anche in quella sede vi sia la presenza delle Categorie degli Attivi e, ancora di più, quella dei Servizi. Se dobbiamo stare "nel territorio", dobbiamo presidiarlo attraverso non solo le nostre sedi, ma con la nostra reale presenza. Locali ed uffici vuoti o poco aperti non servono a molto. Tutte e tutti siamo chiamati ad un impegno maggiore.
Ma, detto tutto ciò, permettetemi di esprimere la mia soddisfazione per questo risultato. Ci abbiamo lavorato (lo SPI regionale, lo SPI provinciale, la Camera del Lavoro e la Lega della Montagna) da più di un anno. Avevamo valutato anche altre possibilità: Pescia e Pistoia (sulla Sala) ma, per più di un motivo, non è stato possibile realizzare (almeno per ora) quei progetti.
Nei prossimo mesi inaugureremo le nuova sede e ovviamente, tutte e tutti, siete chiamati a presenziare e festeggiare con loro questa bella cosa.
Saluti.
Andrea Brachi
segretario generale SPI CGIL Pistoia

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Le Leghe

Lo SPI nel congresso del 1991 ha assunto la LEGA come punto centrale della propria organizzazione: le leghe sono così diventate le struttura territoriale di base dello SPI, centro vitale della sua politica con compiti organizzativi e programmatici.
Lo Spi di Pistoia si organizza in 7 leghe.

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